Per chilometri e chilometri inseguiamo delicate ragnatele, pallide tracce: sono le piste antiche, vecchie, appena lievi, quasi scomparse, qualcuna più recente. Sembrano indecifrabili, ma Mohamed, l’autista, non ha incertezze e sceglie in continuazione tra una e un’altra a tutta velocità per non affondare nella sabbia. Fino a giungere presso una manciata di capanne che paiono chiuse ermetiche. Il sole è ancora alto. Nessuno attorno. Ce n’è una aperta, sembra lasciata apposta per i viaggiatori. Ci fermiamo per prendere fiato, per riposare le schiene dagli urti e dai salti. Viaggiamo con il camion che si inerpica dovunque, supera wadi sassosi e buche, ma al prezzo a volte del nostro fondoschiena. Berremo dell’acqua, ci riposeremo un pò. Mohamed lascia il cofano del camion sollevato e rabbocca l’acqua.
Dopo appena un breve istante, spuntano ad uno ad uno, come per magia, gli uomini del villaggio. Il primo giunge con un catino di braci accese: il segno dell’ accoglienza. Sono e siamo tutti Beja. Si riconoscono dai volti, dalle galabie, dal saluto rituale tra ripetuti “marabà”. Saluto anch’io, ho imparato una breve formula mentre metto la mano destra sul cuore. Nessuno si stupisce della mia presenza, unica donna. Nel rispetto e nel segno dell’ospitalità, si accetta lo straniero per com’è, perchè avrà le sue ragioni che non è necessario spiegare. Il mio equipaggio è il mio passaporto. Ed è l’inizio immediato dei racconti. Da dove veniamo, siamo i benvenuti, e poi le piogge e i pozzi vicino e lontano, le greggi, chi abbiamo incontrato. E noi chiediamo se hanno visto sure (in arabo foto, per intendere graffiti) sulle montagne li attorno. Offriamo le nostre banane preziose ai bambini. Condividiamo con sollievo l’ombra. Poco lontano la polvere mista a sabbia si avvita in brevi vortici che vagano come spiritelli tra i cespugli. Sento gli sguardi delle donne, i tronchi d’acacia delle capanne vicine hanno fessure profonde e ombrose, non si fanno vedere, ma le avverto, è come se nuovi e vecchi sensi si risvegliassero in me, imparassero ad ascoltare e decifrare nuovi segnali, qui parlano i loro silenzi. La vita in viaggio è una parte così preziosa ed emozionante, altrettanto le pause e le incognite. Nulla è certo, neppure se, e dove arriveremo o se troveremo qualcosa. Viaggiamo guidati da voci, parole e racconti di nomadi che sono passati, che sono stati, che hanno “visto”, sempre solo camminando. La prima sosta, per il fatar, è il primo segmento della nostra unione. I primi bocconi, il pane condiviso è il germoglio della confidenza. Poi viene il tempo del caffè , la gebena, inizia con l’accendere il fuoco. Con il tostare i chicchi. I chicchi rimbalzano sulle pareti del recipiente di latta, Mohamed li mescola con movimenti brevi, orizzontali. Li fa saltare per non bruciarli. Bolle l’acqua nella piccola anfora di coccio, ed il caffè polverizzato scorre dal palmo della mano nello stretto collo della gebena. E’ sceso il silenzio, una pausa, e il sottofondo sonoro è il loro ritmo, un tintinnio, quasi musicale, in attesa del profumo, la base su cui tessere la mia storia. I chicchi passano nel pestello ed il ritmo diviene più profondo, quasi rotondo. Brillano gli occhi, altri si incantano, e paiono più profondi mano mano che raggiungono il passato, al padre del padre. Ricominciano a mormorare, lo sguardo alla brace. Beja sono, il mio magnifico equipaggio terrestre. Ed il viaggio si infittisce diviene piú denso nel dipanarsi di racconti che vanno all’indietro nel tempo che pare si sia fermato. Intanto si leva il profumo del caffé e del cardamomo. Riprendono le voci, unendosi al profumo, alle brezze leggere che entrano tra le fessure, ai rami del soffitto in un tessuto che riassume il deserto. La luce fuori è accecante, sembra un muro. Non si può fare altro che muoversi lentamente, o non muoversi per nulla, e raccontarsi mentre il tempo si placa, si allunga e si dissolve.